Don Giovanni, encore…

                                                            A Massimo Mila,  in memoriam

Autore: Emanuele Franceschetti

28 Ottobre 2016

Don Giovanni ha quasi quattrocento anni.  Sarebbe un lavoraccio, probabilmente, riavvolgere il nastro e fermare la pellicola, pezzo dopo pezzo, e riscoprire tutte le volte che il ‘vecchio’ libertino ha ispirato una nuova opera, è tornato in teatro mutando d’abito, si è infilato in un nuovo dramma, in un monologo, in una pellicola, in un saggio critico, in un romanzo, in un disco.


La nostra civiltà ‘trattiene’ gli archetipi, li serra a sé, non li abbandona: può trascurarli, tradirli, fraintenderli, ma non può (e non vuole) liberarsene mai del tutto. Deo gratias.
Insieme a Faust e a Don Chisciotte, Don Giovanni è uno degli archetipi della nostra cultura, uno dei suoi miti fondanti: e il mito, per dirla con Malinowski, non è favola inutile, ma forza attiva. E creativa: ri-alimenta, secondo un’incantevole circolarità, quella stessa cultura che gli ha dato i natali. Che poi, paradossalmente, a prender per buone le parole di Stendhal, la vitalità estrema di Don Giovanni, la sua ‘riuscita’, il suo fascino, devono (quasi) tutto alla nostra cristianità. O, per dirla meglio ed essere politically correct e non far adirare nessuno: alla secolare presenza, in Italia e in Europa, del credo cattolico e del Papa. Ad esempio ad Atene, ci ricorda Stendhal, uno che vive per il proprio piacere personale ignorando pudori e vergogne, non avrebbe destato alcuno scandalo né alcuna censura. E quindi, per un’inevitabile equazione, non avrebbe avuto lo stesso fascino. Viva il Papa.

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Ma queste, in fondo, sono poco più che divagazioni e curiosità. Ciò che ci preme ricordare, oggi, senza malcelare un grammo della nostalgia sognante degli anniversari, è la prima rappresentazione del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte: Praga, 29 Ottobre 1787. Da quel momento, la storia del mascalzone impenitente cambia radicalmente. L’opera era stata commissionata dall’Imperatore  Giuseppe II. Della gestazione, in realtà, sappiamo ben poco: come, in realtà, non sappiamo chissà quanto persino del rapporto tra il compositore salisburghese e il librettista italiano. E’ probabile, come alcuni ipotizzano, che la prossimità ‘geografica’ con cui i due si trovavano a lavorare avrebbe reso inutile un carteggio. Da Ponte, nei suoi diari, ci dà notizia (oltre che, generosamente, delle sue vicende personali..) del suo intenso lavoro allo scrittoio, ove compone (al momento di Don Giovanni) tre opere contemporaneamente (Axur re d’Ormus per Salieri e L’arbore di Diana per Martin y Soler), alleviato nella frenesìa creativa solo dal tabacco e da qualche buon alcolico. Nonché, dal rapido sopraggiungere nella sua camera, al primo tintinnar di un campanello, di una gaia e servizievole fanciulla. Anche quella, s’intende, per alleviare la frenesìa creativa. O, più probabilmente, per eccitarla.
Mozart, come è noto, ci impedisce di attingere ad una documentazione vergata con mire consapevolmente autobiografiche ed auto-celebrative, esclusion fatta per le lettere, dove pure, il tono estremamente dimesso e confidenziale con cui si rivolge ai destinatari ci restituisce, al massimo, squarci di colorata ed appassionata intimità, di inconfondibile ironia. D’altra parte, è Mozart stesso a rivelarlo: l’unico modo con cui riesce a dire qualcosa è la musica. Non la pittura, non la poesia. La musica. Ecco tutto: Prima la musica, poi le parole.

A partire dal 29 Ottobre del 1787 Don Giovanni nasce a nuova vita. Non ci interessa granché, qui, discutere del maggior successo della prima praghese rispetto alla seconda rappresentazione viennese, né tentare ancora di psicanalizzare Mozart chiedendoci, partitura alla mano, cosa realmente pensasse di quel seduttore, che alla fine viene rimandato all’inferno, per buona giustizia divina. C’è chi dice che Mozart era un’anima pia, devota, e che avrebbe visto in questa sua opera un grande messaggio morale. E’ possibile, anzi: probabile. Con buona pace del giudizio postumo di Beethoven, inspiegabilmente sconcertato dall’immoralità dell’opera (ma conquistato dalla sua musica). E’ altrettanto probabile che la musica, nella proliferazione di significati molteplici che per sua stessa natura produce, sia riuscita, in quei misteriosi frangenti, a ‘sfuggire’ dal controllo ‘cosciente’ del compositore, per farsi –forse- più densa, più complessa, più affascinante, e a tratti più oscura. Aggettivi insignificanti per discutere della musica mozartiana. Ciò che è certo è che Mozart anima, col canto, di una nuova e tremenda vita un corpo che, per dirla con Mila, con l’andare del diciottesimo secolo aveva consumato i suoi giorni migliori. Con Mozart accade qualcosa. La musica riesce a farsi voce viva di tutti i personaggi in scena: l’energia ‘virile’ di donna Anna, il patetismo serio di Don Ottavio, l’istrionismo astuto di Leporello, la tenerezza mai rassegnata di Donna Elvira. I personaggi prendono vita. La musica è sfuggita al mondo di Metastasio: una nuova epoca è alle porte, in cui la musica non sarà più serva fedele della parola, ma nel suo rincorrerla finirà inevitabilmente per superarla in potenza, agilità, profondità.   

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 E Don Giovanni?  E’ nella (anzi: è la)  musica stessa che corre freneticamente a partire dall’allegro in Re maggiore dell’Ouverture, perpetuo élan vital oltre lo spazio e il tempo. Così imprendibile da diventare, quasi per un contrappasso, evanescente, sfuggevole. Troppo volatile per essere personaggio storicizzabile, dentro un hic et nunc, classificabile ed individuabile. Don Giovanni è rinato, nella partitura mozartiana, ad una vita nuova ed altissima, che per nulla teme il sopraggiungere della statua, del destino, della morte. Quella morte che, pur non riguardandoli affatto, fa tremare i denti di Leporello in febbrili terzine d’angoscia, e fa correr via la povera Elvira dalla paura. Don Giovanni è fedele alla sua infedeltà: al punto da non trovar per nulla disdicevole, per proseguire la sua corsa senza cambiar direzione, incontrare la morte, guardarla in volto, stringerle la mano, finanche accettarne le imposizioni. Come tutti gli eroi, l’incontro con una dimensione ‘altra’, con la morte, col baratro, col maligno non è da temere: è parte della corsa, del processo conoscitivo, che è vita stessa. Don Giovanni, Faust, Amleto, Ulisse, Prometeo, Don Chisciotte:  campioni di curiosità.

Nell’ottobre del 1787, in piena aufklärung, alla vigilia della Rivoluzione francese, Mozart cambia definitivamente i connotati al libertino, all’ateista fulminato, al dissoluto nato dalla penna di Tirso  un secolo e mezzo prima. Il 29 Ottobre del 1787 è una delle date essenziali per la storia della cultura europea. La musica non sarà più la stessa. E neppure Don Giovanni. A dimostrarlo, ben oltre le risibilissime opinioni di chi scrive, una fittissima e confortevole compagine di ben più autorevoli nomi, che dopo quel 1787, non riuscirono a trattenersi dal celebrare, in un modo o nell’altro, l’inspiegabile potenza di quella musica, di quel Don Giovanni del salisburghese morto pochi anni dopo, appena trentacinquenne. Hoffmann, Hugo, Kierkegaard, Puškin, Byron, Stendhal, Mérimée, de Musset, Hebbel, Rostand. Sono soltanto alcuni tra gli innumerevoli sedotti. Una compagnia davvero autorevole.

Emanuele Franceschetti

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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