Nessuno è il mio nome: ricerche di una nuova identità attraverso la metafisica

Basandomi sull’assunto che l’opera d’arte possa essere letta come documento socio-culturale, particolarmente eloquente in periodi di grandi e profonde trasformazioni, propongo di analizzare questa funzione nel teatro musicale degli esponenti più significativi di quella che Massimo Mila definisce “generazione dell’80”, ossia, Alfredo Casella e Gian Francesco Malipiero

Autore: Silvia D'Anzelmo

27 Settembre 2016

Quelli che vanno dalla disfatta di Caporetto (1917) alla presa salda sulle coscienze degli italiani da parte del regime fascista (1932) furono anni di grande cambiamento dovuto, primariamente, all’esperienza della guerra che influì profondamente sulle categorie mentali di gran parte del mondo generandone un capovolgimento. Per cambiamento di mentalità intendo quelle trasformazioni che riguardano il semi-conscio collettivo e che, quindi, influiscono anche sull’artista e sul suo modo di intendere e fare arte. Queste variazioni sono sottili e difficili da cogliere, tuttavia, ci restituiscono un visione cristallina non solo dell’opera d’arte in sé o del singolo autore, ma di tutto il quadro socio-culturale.

Quasi tutti gli storici identificano nell’esperienza della Grande Guerra una cesura, un taglio nella storia che ha ingenerato forti trasformazioni nella società del primo novecento. Per quel che riguarda l’Italia, un’intera generazione di giovani, arsi di febbre patriottica, aveva accolto la guerra come evento rigeneratore, capace di sollevare le sorti della nazione fiaccata dal pessimismo e dal degrado morale come espresso chiaramente da Filippo Tommaso Marinetti: “la guerra è un’ imposizione fulminea di coraggio, di energia e di intelligenza a tutti. Scuola obbligatoria di ambizione e d’eroismo; pienezza di vita e massima libertà nella dedizione alla patria.” Nel loro immaginario la guerra appariva come uno scontro cavalleresco tra eroi che si affrontano corpo a corpo per difendere la propria patria e le proprie donne, tutte immagini su cui fa leva Gabriele D’Annunzio nei suoi comizi a favore dell’interventismo: “Avanti! Che siamo pochi o molti, uno contro uno…alla carica! Alla baionetta! Vittoria!”; ma la prima guerra mondiale non risponderà affatto alle loro aspettative: la guerra si configura come esperienza totale di modernità intesa come distruzione irrazionale e insensata. Questa consapevolezza porta a un inevitabile crollo della concezione positivistica che intendeva la realtà come oggettiva, razionalmente organizzata e l’umanità ottimisticamente posta sui binari del progresso; alla fine della guerra, l’uomo si ritrova totalmente incapace di dominare la realtà intorno e dentro di sé: le atroci esperienze rendono i contorni labili e confusi, tanto da creare una forte ambiguità tra realtà e finzione.

La crisi dell’idea di realtà oggettiva conduce a una crisi del soggetto dovuta all’affermarsi di tendenze alienanti nella società e nella guerra, che spazzano via l’individualismo ottocentesco per far posto a una società massificata; l’uomo non ha più nessuna certezza, le possibilità di conoscere se stesso e il mondo che lo circonda si riducono drasticamente recidendo di netto la possibilità di comunicazione con il prossimo, per dirla con le parole di Giorgio de Chirico: “la realtà, poi, ha tanti aspetti diversi quante diverse sono le mentalità e diversi sono gli individui”. L’individuo non conta più in quanto singolo, l’io si indebolisce, si perde frantumandosi in una serie di stati incoerenti, privi di continuità: diviene “nessuno”.Per non cadere nella follia, come è successo a molti di fronte agli orrori della guerra, l’uomo reagisce ripiegando in un “mondo altro” irrazionale e magico: lo sguardo metafisico salverà l’individuo da una disfatta dell’io rovinosa e totale. Forte è il bisogno, nella società italiana degli anni Venti ma più in generale in tutta l’Europa post-bellica, di proteggersi dall’esperienza drammatica appena conclusa e ritrovare un solido equilibrio. Da queste necessità di stabilità e ritorno all’ordine nascono esperienze di natura e carattere estremamente eterogenee, eppure, forti sono le corrispondenze legate al bisogno psicologico dell’uomo di ritrovarsi in questo nuovo mondo inaugurato dal conflitto.

Mentre le masse avevano esperito la modernità per la prima volta con la guerra, gli artisti avevano avvertito già da tempo lo squallore di un mondo mercificato e tecnicizzato: fin da subito avevano sperimentato meccanismi di difesa contro una modernità sterile e priva di poesia. Alla fine della guerra, però, la situazione è ben diversa: le fiamme, in cui l’artista voleva ardere la società borghese, c’erano state per davvero ma avevano distrutto tutto in maniera indistinta, irrazionale, totale. Come spiega chiaramente Alfredo Casella, l’artista sente il bisogno di “riunire e ricomporre i membri sparsi della bellezza, a fine di riplasmare una grande figura ideale”; ci troviamo di fronte alla fuga irrazionale come soluzione che sblocca la condizione di paralisi in cui si viene a trovare l’uomo dopo la guerra. Il fantastico crea vie alternative apportando un cambiamento di prospettiva che permette di ribaltare la visione negativa della realtà in una visione, se non positiva, quantomeno accettabile: finalmente si scorgono “i primi fantasmi di un’arte più completa, più profonda, più complicata e, per dirlo in una parola… più metafisica. Nuove terre apparvero all’orizzonte.”[1] Questo è il percorso che tutti gli artisti italiani ingaggiano alla fine della guerra: la ricerca di una nuova stabilità personale da offrire al prossimo, finché il regime fascista non imporrà il proprio ordine.

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Il Grande Metafisico 1917

Infatti, questa ricerca di stabilità attraverso vie irrazionali è operata anche dal fascismo che fa del mito, della fede e del rituale le armi più forti per un buon radicamento di massa e per accedere al potere. Tutto questo è molto chiaro nelle parole che Benito Mussolini rivolge ai militanti fascisti già nel 1922: “Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà…il nostro mito è la nazione, il nostro mito è la grandezza della nazione! E a questo mito…noi subordiniamo tutto il resto.” Il partito fascista opera una vera e propria sacralizzazione della politica attraverso la risemantizzazione di rituali e simboli della vecchia Italia liberale, e la fondazione di nuovi. Tra i più importanti troviamo proprio la mitizzazione della guerra e il culto dei morti grazie ai quali il fascismo dà un senso a quell’esperienza traumatica trasformandola da massacro incomprensibile a epopea di eroismo.[2] Il regime fascista, dunque, fa leva sulla componente irrazionale, acquisendo caratteri più vicini alla religione che non al partito riuscendo, così, ad attirare l’attenzione di moltissimi: abbagliati dal miraggio di un ritorno alla pace e alla stabilità, gli italiani – compresi molti artisti – finiranno per sottomettersi a un ordine imposto dal regime, perdendo la propria libertà personale.

Dato il carattere complesso e multiforme delle esperienze artistiche del primo dopoguerra italiano, non ci si può esimere dal considerare la musica in stretta connessione con la letteratura, il teatro di parola e le arti pittoriche; infatti, dietro le grandi differenze del prodotto artistico concluso, ci sono percorsi, visioni e prospettive affini nati dal proliferare di riviste come “Ars Nova”, “Valori Plastici” o “900” che favoriscono intrecci e collaborazioni tra gli artisti e il convergere di lessico, concetti e termini comuni. Dopo l’ondata di morte e distruzione che è passata sull’Europa con la brutalità di una catastrofe naturale, non è più tempo per le requisitorie violente e la dissacrante rottura della forma che le avanguardie avevano propugnato con energico vigore; certo, come spiega Massimo Bontempelli in “Analogie” – articolo apparso sulla rivista “900” nel 1927 – artisti come Marinetti avevano “conquistato e valorosamente certe trincee avanzatissime” ma ora subentra il tempo della ricostruzione: “dietro di esse io ho potuto cominciare a fabbricare la città dei conquistatori. Evidentemente, la trincea è più “avanzata”: ma non tutti ci possono andare ad abitare”. Dunque, gli intellettuali italiani cominciano a interrogarsi sulla possibilità di superare le esperienze artistiche dell’avanguardia recuperando la solidità salvifica dell’ordine formale -“siamo uomini d’ordine e d’interesse spirituale” dirà Vincenzo Cardarelli sulle pagine della “Ronda”; anche de Chirico constata che “da qualche tempo c’è qualcosa di cambiato nelle arti”, molti sentono di essere “arrivati a un limite della loro arte” di non poter più proseguire in quella direzione e, spaesati, si pongono la domanda “dove andiamo?” sentendo l’intimo “bisogno di una base più solida”. Parole diverse ma concetti eloquentemente simili vengono espressi nelle riflessioni musicali di Ferruccio Busoni: “Dappertutto…si annunciano gli stessi sintomi di un rivolgimento nelle aspirazioni musicali. Si somigliano in tutti i paesi; ed evidentemente l’aperta esplosione di questa tendenza odierna è una manifestazione del dopoguerra”.
L’ urgenza di un rinnovamento della cultura italiana passa attraverso uno sguardo volto al passato e l’altro all’Europa: questi artisti sentono il bisogno di rifugiarsi in un mondo pre-borghese idealizzato, di attraversare l’arte chiara e rassicurante degli antichi maestri rielaborandoli attraverso la lente moderna delle esperienze artistiche europee. Questa necessità, come possiamo constatare, è presente in tutte le arti, ma è particolarmente forte in ambito musicale come ricerca di nuove e più nobili radici dell’arte italiana ritrovate in un passato antico e quasi mitico: Monteverdi, Frescobaldi, Palestrina, Vivaldi, Corelli e molti altri diventano i nuovi punti di riferimento estetico-formale per gli artisti del dopoguerra, tanto che si arriva a parlare di “neoclassicimo”. Nell’articolo “Il neoclassicismo mio e altrui”, Casella chiarisce questo punto sostenendo che la musica italiana “se vuol rinascere veramente e contare come forza ad un tempo nazionale e mondiale, deve, senza necessariamente rinnegare l’Ottocento nostro il quale contiene molte cose grandi, cercare un nuovo punto d’appoggio nel passato italiano preromantico”.

Il teatro musicale rifiuta il melodramma, canale privilegiato di comunicazione con il pubblico, e cerca vie alternative per esprimersi: dal ritorno al pezzo chiuso, all’uso della canzone che rompe la continuità dell’azione restituendoci un’immagine frammentaria della realtà governata da un tempo che ha perso la sua linearità per sostare angosciosamente su se stesso. Il “problema dell’opera”, così viene definito da critici e musicisti dell’epoca, testimonia sia il bisogno che la difficoltà di fondare un nuovo linguaggio in grado di sostituirsi al melodramma romantico e verista oramai completamente svuotato dei suoi presupposti etici.[3] Questa ricerca di nuovi tipi di drammaturgia credo sia l’elemento più eloquente del cambiamento delle categorie mentali che si stava concretizzando nel dopoguerra; il melodramma, infatti, è cifra della mentalità dialettica della borghesia ottocentesca fortemente ancorata alla realtà che è oggettiva e si esplica nei parametri di causa ed effetto, e il rifiuto delle sue forme, tematiche e narrazioni sta a testimoniare il crollo di quel mondo. Nel loro teatro musicale, Casella e Malipiero esemplificano questa sperimentazione di nuove soluzioni più adatte a manifestare la sostanziale ambiguità del reale che si fa assurdo e grottesco nelle prospettive straniate della metafisica. Nella nuova concezione estetica del teatro – musicale e di parola – il coinvolgimento emotivo è bandito come fatto di cattivo gusto poiché presuppone un atteggiamento passivo da parte dello spettatore; al contrario, si assumono pose critiche nei confronti di ciò che viene rappresentato favorendo la riflessione del pubblico attraverso l’utilizzo di procedimenti stilistici come la finzione, la deformazione e lo straniamento.

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Le proposte avanzate dai lavori di Gian Francesco Malipiero, in particolare, dalle “Sette canzoni” (1918-19) e dal “Torneo notturno” (1928-29), sono tra le più originali e riuscite. La guerra ha avuto su Malipiero il duplice effetto di sconvolgimento e di input creativo, come egli stesso dichiara: “Nel 1914 la guerra sconvolse tutta la mia vita che, fino al 1920, fu una perenne tragedia. Le opere di questo periodo rispecchiano forse la mia agitazione; ciononostante ritengo che, se qualcosa ho creato di nuovo nella mia arte (forma-stile), è appunto in quest’epoca.” Le “Sette canzoni” vengono composte tra il 1918 e il 1919 e andranno poi a confluire nell’opera in tre parti chiamata “Orfeide”, di cui, la prima è “La morte delle maschere” e l’ultima “Orfeo, ovvero l’ottava canzone”; il libretto delle “Sette canzoni”, assemblato dallo stesso Malipiero, è liberamente tratto da antiche poesie italiane che non vanno a organizzarsi in una vera e propria vicenda ma si condensano in espressioni drammatiche indipendenti: il compositore, infatti, elimina totalmente il recitativo recidendo i connettivi logici tra gli episodi che risultano totalmente irrelati. In questo modo, il tempo non segue più l’azione, perde la sua linearità direzionata bloccandosi in un angoscioso eterno ritorno: il primo brano che ascoltiamo in apertura dell’opera “la mi tenne la staffa” cantato dal cantastorie, lo ritroviamo sulle labbra del lampionario a chiudere il cerchio nell’ultima espressione drammatica.

La consequenzialità e la continuità della logica drammatico-musicale sono negate a testimoniare che la realtà è irrimediabilmente scomposta in frammenti disgiunti e artificiali che possono essere colti dall’artista solo con istantanee epifanie: “attraverso  il foro da me praticato mi parve di scoprire un nuovo mondo nel quale gli uomini vivevano, si agitavano, pensavano e morivano musicalmente, un mondo artificiale perché lo immaginavo sotto forma di teatro”. Per quanto riguarda la costruzione musicale, Malipiero abbandona totalmente l’armonia funzionale adottando un linguaggio modale arricchito dalla politonalità con melodie spesso costruite per gradi congiunti che richiamano il gregoriano; dunque, sia a livello testuale che musicale il compositore si volge al passato risemantizzandolo attraverso una sensibilità ultramoderna. Malipiero, infatti, elimina totalmente il coinvolgimento sentimentale e l’immedesimazione da parte dell’ascoltatore: in questa atmosfera sospesa e onirica, personaggi fissati, bloccati in una posa, non comunicano tra di loro e non si raccontano poiché, nel barlume che li illumina fugacemente, riescono a malapena a esprimere brevi attimi della loro esistenza; lo spettatore non ha il tempo di familiarizzare con queste figure sparse, frammenti di un’umanità sospesa, ed è costretto a riflettere scoprendone il valore simbolico: sono maschere prigioniere del teatro, finzioni artificiali oramai incapaci di rappresentare la vita. Eppure, per Malipiero, “la maschera…è quella che sopprimendo ogni contatto con la realtà, perché la nasconde, finisce per favorire la verità”: ritorniamo al concetto di ambiguità del reale che in questo caso diviene addirittura falso e ingannatore perché, con la sua logica razionale, illude gli uomini a cui rimane solo la fuga irrazionale, il cambiamento di prospettiva dato dalla metafisica, per cogliere attimi di verità.

“la maschera…è quella che sopprimendo ogni contatto con la realtà, perché la nasconde, finisce per favorire la verità”

L’istante salvifico, il “malchiuso portone” da cui scorgere il varco, per dirla con le parole di Eugenio Montale, diviene l’unico modo per individuare una via di fuga dalla mancanza di senso della realtà. Dieci anni più tardi, Malipiero approda al Torneo notturno, capolavoro assoluto che segue “lo stesso ordine di idee delle Sette canzoni” e va a concludere la stagione teatrale aperta proprio da quelle. La differenza sostanziale sta nel fatto che, nel 1929, il compositore è riuscito ad approdare a una nuova stabilità, ha trovato l’equilibrio che nel precedente lavoro riteneva totalmente impraticabile; infatti, se è vero che il “Torneo notturno” condivide con le “Sette canzoni” molte soluzioni drammatiche come la struttura a episodi, la mancanza quasi assoluta di recitativo e il libretto costruito su stralci di testi poetici medievali e rinascimentali, è vero anche che i vari episodi sono legati tra loro da intermezzi orchestrali e che, in questo caso, ritroviamo una rudimentale continuità di intreccio, una trama appena sbozzata che procede per via allusiva e non certo razionale. Seguendo le didascalie sceniche del libretto riusciamo a ricostruire il fil rouge che tiene insieme i vari episodi: Madonna Aurora viene corteggiata da due uomini che cercano di conquistarla con le loro serenate; il primo è il Disperato che esprime in toni allucinati la propria angoscia esistenziale, l’altro è lo Spensierato che, con la sua canzone sfacciata e ardita (“Chi ha tempo e tempo aspetta”), riesce a sedurre la donna solo per poi abbandonarla, lasciandola a terra esangue.

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Il Disperato vuole vendicarsi e insegue il suo rivale in tutti i sette notturni sfidando la tempesta, attraversando foreste, taverne, case e castelli ma ogni volta è spettatore impotente degli effetti che la canzone del tempo ha sugli animi femminili che si spingono oltre i comportamenti normalmente e socialmente accettati sotto l’influsso di questa melodia. La potenza seduttiva della Canzone del tempo risiede nella stretta congiunzione di amore e morte da cui deriva un fascino terribile e distruttivo che dobbiamo imparare ad accettare. Finalmente, nel carcere del Castello della noia, il Disperato ritrova il suo rivale, lo uccide e si impossessa della canzone del tempo di cui si serve per costringere la castellana a liberarlo. I due personaggi intorno alla quale Malipiero costruisce un abbozzo di continuità drammatica sono, in realtà, le due facce di una stessa medaglia, una sola figura che si frantuma in due diverse pose esistenziali: lo Spensierato rappresenta la vita agita che, nell’affermare se stessa, risulta violenta e crudele; il Disperato, invece, è la vita contemplata, la vita dell’uomo moderno che indaga il senso della realtà rimanendone tragicamente impigliato. Questa dissociazione testimonia l’irreparabile compromissione dell’identità dell’io moderno che cerca spasmodicamente di ricongiungersi a se stesso ma che non può sperare di recuperare la propria organica completezza secondo parametri oramai desueti: bisogna prendere atto di questa nuova condizione, affrontarla e fronteggiarla con armi differenti. La costatazione che Malipiero fa della crisi dell’io moderno è spaventosamente vicina a quella esperita da Luigi Pirandello che spiega

“Il nostro spirito consiste di frammenti…di elementi distinti…i quali si possono disgregare e ricomporre in un nuovo aggregamento… Talché veramente può dirsi che due persone vivono, agiscono a un tempo, ciascuna per proprio conto, nel medesimo individuo.”

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La risposta che Malipiero dà alla disgregazione individuale è contenuta formalmente nella “Canzone del tempo” che si configura come il nucleo centrale dell’intero dramma non solo a livello tematico ma anche strutturalmente poiché il suo profilo, apparentemente frammentario, è basato su una forte organicità che trascina l’ascoltatore in un gorgo senza fine. La tecnica costruttiva su cui Malipiero si basa non è quella classico-romantica dello sviluppo tematico ma quella della variazione di minime cellule strutturali sia a livello melodico che timbrico, armonico e ritmico, per cui, le analogie tra le varie sezioni non vengono scorte dall’ascoltatore con facilità e immediatezza ma sono presenti. Dunque, nonostante le apparenze, la campitura architettonica dell’opera è chiaramente delineata secondo un ordine che è diverso rispetto a quello del melodramma tradizionale: il compositore è finalmente riuscito a ricreare un’organicità narrativa e musicale che rispecchi davvero la condizione dell’uomo moderno.

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Felice Casorati-Ritratto di Alfredo Casella

Altra proposta estremamente interessante con la quale si cercano nuove soluzioni estetico-formali al melodramma è quella di Alfredo Casella che approderà molto tardi al teatro musicale; in un primo momento, infatti, egli rifiuta totalmente l’opera come un problema a cui non può esserci soluzione: la fonte è disseccata, bisogna oramai rivolgersi al balletto unico genere deputato all’espressione della modernità. Tuttavia negli anni Venti, influenzato dal nuovo clima culturale e politico, dalle suggestioni del neoclassicismo e dalle riflessioni sull’arte che “deve tendere a farsi popolare, ad avvincere il pubblico” fatte da Bontempelli, Casella rivaluta e riabilita il melodramma ottocentesco. L’opera nella quale il compositore trasfonde tutte le sue riflessioni sull’argomento è “La donna serpente” che Casella trae dalle fiabe teatrali di Carlo Gozzi e a cui si dedica tra il 1928 e il 1931.
Nella scelta del soggetto, il torinese testimonia la sua partecipazione, insieme con altri compositori come Ferruccio Busoni o Giacomo Puccini, al rinnovato interesse che la cultura primonovecentesca ha per il teatro favoloso di Gozzi: per Casella, quello del drammaturgo veneziano è uno “stile grandioso, fantastico, fatto di eroismo barocco, di passioni drammatiche, di tragicità, di comico buffonesco e popolaresco, di vicende varie, infinite e tutte dinamiche…veramente fatto per associarsi ad una musica melodrammatica”. La donna serpente è perfettamente aderente all’estetica caselliana fondata sull’assunto che “il teatro lirico è basato su un fatto straordinario, di natura totalmente inverosimile ed arbitraria: esso si poggia su personaggi che vivono cantando” per cui il teatro musicale “non ha rapporti con la realtà” e può “spaziare…nell’infinito della fantasia musicale”; il compositore ha finalmente trovato il soggetto che risponda alle sue prerogative e grazie alla quale può realizzare un’opera che neghi l’estetica del teatro verista e naturalista, l’impressionismo musicale e le profondità psicologiche del dramma wagneriano: la sua sarà un’opera dilettevole basata su una musica agile e scorrevole che chiuda con “il teatro fatto di prediche, di pseudo-religione, di staticità, e di contemplazione a scapito dell’azione”.

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La stesura del libretto viene affidata a Cesare Vico Ludovici che mantiene intatto il carattere fiabesco del testo gozziano esaltandone il ritmo incalzante con cui le situazioni si susseguono mantenendole sempre su un piano straniante di cui esempio emblematico è il lessico che riprende in parodia quello tipico del melodramma. I personaggi sono calati in un clima irreale e irrazionale che non permette loro di sperimentare emozioni ma solo di muoversi in ambiti prestabiliti e privi di complicazioni psicologiche come marionette umane che recitano la loro parte.
A differenza di Malipiero, Casella non nega la continuità dell’intreccio per cui la storia ha una sua organicità che non segue però le logiche razionali e oggettive ma quelle allusive e stranianti della fiaba: la fata Miranda è innamorata del mortale Altidòr, re di Teftis, per lui vuole rinunciare all’immortalità e vivere “dove con cuore uguale/ si accetta la vita e la morte/ e l’amore”. Il re delle fate Demagorgon è contrario alla sua scelta perché teme l’incostanza del cuore umano (“quanto dura in cuor dell’uomo amore?”) e pone delle condizioni terribili per lasciarla andare: la fata vivrà con lo sposo per nove anni senza che lui sappia nulla riguardo le sue origini; allo scadere dei nove anni se Altidòr giurerà di non maledirla per delle azioni atroci che lei compirà forzatamente, e poi sarà spergiuro, allora Miranda “mutata in serpe” se ne andrà “terra terra rasente per duecent’anni” per poi tornare nel mondo delle fate.
La profezia del re Demagorgon, purtroppo, si avvera ma alla fine tutto va per il meglio perché Altidòr, scoperta la vera identità di Miranda e le condizioni a cui Demagorgòn l’aveva costretta, riesce a salvarla superando prove terrificanti. Affianco alle figure fantastiche (maghi, mostri, fate) che vengono trattate come marionette, troviamo anche le vere e proprie maschere della commedia dell’arte che fanno corona alla vicenda principale con i loro modi ironici e disincantati.

https://www.youtube.com/watch?v=K–_d8QvVNw

Il tema dell’uomo che diviene maschera di se stesso sembra un vero e proprio assillo per moltissimi artisti del periodo, è il caso di Pirandello per cui gli esseri umani possono presentarsi solo come personaggi, maschere poiché “un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre “qualcuno”.
Mentre un uomo…può non essere “nessuno”; e di Bontempelli per il quale “una marionetta vera è un uomo finto. Dunque una marionetta finta è un uomo finto finto, cioè un uomo vero, l’uomo vero per eccellenza”. Dunque, non è solo Malipiero a fare della maschera il cardine della sua estetica, questo tema è un assillo per molti intellettuali che lo declinano il tema a seconda della propria personale sensibilità: Casella, ad esempio, attraverso l’ironia delle maschere e dei personaggi, dissimula la crudele sfida tra realtà e illusione. Per quanto riguarda la partitura, la strategia compositiva alla quale si richiama il compositore è basata sulla fusione di musica e azione con un montaggio che ricorda quello registico. Casella esegue un vero e proprio pastiche grazie alla quale richiama modi e pose di autori del passato come il Verdi del Falstaff, Mozart, Händel e Rossini; la struttura stessa della donna serpente richiama l’opera tradizionale con le sue divisioni in scene e numeri che, in realtà, risultano delle semplici diciture poiché la musica procede lungo i suoi binari senza fermarsi: l’uomo moderno, investito dalla simultaneità caotica e chiassosa, non ha più il tempo per aspettare che i vecchi procedimenti musicali si svolgano, vuole esperire tutto e subito. Con la Donna serpente, Casella riabilita il melodramma riallacciandosi alle origini più remote e profonde dell’arte italiana dimostrando che “si può oggi, senza uscire da casa nostra (ché tutti gli elementi poetici e musicali di quella mia opera sono puramente italiani), trovare un genere di teatro che sia ad un tempo tradizionale e moderno.”

Dunque, le soluzioni teatrali che Malipiero e Casella adottano a livello formale e drammaturgico fronteggiano tematiche sentite come urgenti dall’intera società del dopoguerra. Nella loro trasposizione artistica, il bisogno di ricreare una nuova identità e nuovi equilibri si traduce nell’evasione in un mondo “altro” ricercato nella favola o nell’universo onirico della metafisica; la presa di coscienza che l’uomo ha perso ogni possibilità di dominio sul proprio mondo si traduce nella costruzione di personaggi che sono fantocci, marionette in balia della sventura. Infine, la tendenza alla ricomposizione organica del proprio universo attraverso leggi “altre” e il bisogno di riplasmare miti universali rispondono a un bisogno atavico dell’uomo: infatti, come nel passato la fantasia, il mito e la favola hanno aiutavano l’umanità ad affrontare l’insensatezza delle catastrofi naturali, ora la aiuteranno a sopportare la catastrofe della modernità: la grande guerra.

Silvia D’Anzelmo


Per approfondire:

[1] Giorgio de Chirico, prosa poetica apparsa sulla rivista “Valori Plastici” diretta da Mario Broglio, Roma, aprile 1918.

[2] Emilio Gentile, Il culto del littorio. Bari, Laterza, 1998, pp. 68 e 74.

[3] Virgilio Bernardoni, La maschera e la favola nell’opera italiana del primo Novecento.

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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