Essere Alirio Diaz

«Non avrei potuto chiedere alla mia infanzia, alla mia gente e ai miei paesi un migliore substrato musicale, spirituale e umano».

Autore: Redazione

13 Settembre 2016
Sorprende, questa affermazione, se si scopre che La Candelaria è un piccolo villaggio dell’entroterra venezuelano, nulla più che una manciata di case in mezzo al deserto, dove Alirio Díaz nasce, ottavo di undici fratelli, il 12 novembre 1923. Un ambiente estremamente povero, in cui il ragazzo trascorre l’infanzia facendo i conti con le dure condizioni che la vita imponeva e la fatica del lavoro nei campi. Ma poi si può andare oltre la prima apparenza, per scorgere, proprio in questo contesto apparentemente sfavorevole, una ricchezza (musicale, ma soprattutto umana: o meglio, l’una riflesso dell’altra) più grande della povertà materiale. In questa quotidianità segnata da indigenze e sacrifici, infatti, il canto e la danza sono elementi costanti, essenziali

«Nel mio povero villaggio  la musica era, per così dire, indispensabile, inseparabile dalla vita di tutte le famiglie del paese. A casa mia, poi, la musica era proprio un “pane quotidiano”»

Come molti suoi coetanei, Alirio prende confidenza con il cuatro e la chitarra; gli amici tuttavia, scorgono in lui un’inclinazione particolare («Fa parlare la chitarra», dicono). Al contempo, nel giovane emergono i segni di una irriducibile curiosità, di un imponente desiderio di conoscere: «Tutto mi interessava – scriverà ricordando quel periodo – e i testi che più mi attraevano li imparavo a memoria o li ricopiavo diligentemente in fogli sparsi o in piccoli quaderni». Forse qualcuno sorride di fronte a questo ragazzo che, mentre pascola le bestie, recita a memoria testi e poesie: «Ancora bambino, recitavo terzine della Divina Commedia (…). Questo mi sosteneva, calmava la mia necessità di formazione e cultura». Tanto che uno dei fratelli maggiori, nel tentativo di aiutare il ragazzo a ottenere il permesso di lasciare il villaggio per intraprendere gli studi, scrive al padre: «Da un ragazzo come Alirio c’è da aspettarsi qualcosa di buono (…). Può essere che, facendo qualche sforzo, questo ragazzo riesca ad arrivare a essere un buon uomo, utile per i suoi, per la patria e per se stesso». Nessuno immaginava, allora, che quel campesino assetato di cultura sarebbe diventato uno dei più illustri e amati maestri del ‘900.

La semplice vita nel popolo, in questi anni, pur nelle difficoltà che le condizioni del luogo imponevano – o, forse, proprio in forza di queste – forgiò in lui i tratti di un carattere incline alla simpatia, alla condivisione, segnato da una positività incrollabile, di cui ben si è accorto chi ha conosciuto il maestro.

E poi il passo decisivo.
Verso i sedici anni, dopo averci pensato e ripensato – e dopo aver confidato alla madre le sue intenzioni – durante la notte Díaz abbandona di nascosto la casa paterna, e a piedi si incammina verso la città. Fugge per evitare la sorte che le circostanze di allora riservavano ai giovani – per lo più il lavoro nei campi o nei pozzi petroliferi della zona; ma fugge – ancora di più – per una lealtà con i suoi desideri: «Io non volevo petrolio, io volevo cultura, educazione». Una sorta di obbedienza a se stesso, che si riverbera a tanti anni di distanza anche nelle parole con cui il maestro introdusse, in tempi recenti, una lezione: «Dobbiamo considerare la nostra interiorità, la nostra coscienza, perchè noi artisti abbiamo continuamente a che fare con essa; altrimenti andiamo contro la nostra vocazione».

Dopo un periodo a Carora, venne il trasferimento a Trujillo (dove Díaz suona il sassofono nella banda), seguito da quello a Caracas; la scuola di Raul Borges, l’incontro con Vicente Emilio Sojo e il primo germe di passione per la riscoperta del canto popolare; quindi il trasferimento a Madrid. Giunto in Italia nei primi anni ’50, frequenta i corsi di Andrés Segovia alll’Accademia Chigiana di Siena, ma poco dopo Segovia stesso lo sceglie come suo assistente: «E’ stato il Diploma della mia vita», affermava Díaz parlandone.

Qui si “stringono la mano” ciò che è accademico e ciò che è popolare

Da questo momento la carriera di Díaz è un instancabile viaggio per il mondo. Un viaggio, però, nel quale nulla, delle origini, sarà dimenticato. L’appartenenza al suo popolo, anzi, pare farsi nella lontananza ancora più nitida e forte. E’ proprio ciò che caratterizza l’opera di Alirio Díaz nella maturità: egli sempre manterrà intatto il legame viscerale con la sua terra, non solo divenendo un illustre propositore delle opere dei compositori venezuelani, ma anche – sull’onda del suo maestro Vicente Emilio Sojo – realizzando una grande quantità di trascrizioni e arrangiamenti di musiche popolari del suo paese.

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La prima formazione musicale spontanea, cioè, venne acquisita in modo così radicale da divenire elemento strutturale della personalità dell’artista maturo. Lo si vede bene nelle tante melodie popolari, che, rivestite di splendide armonie, divengono autentiche perle del repertorio della chitarra. E’ l’unione tra spontaneità popolare, col suo ricco repertorio di canti, e “genio” artistico che ripropone quel repertorio nel linguaggio maturo dell’arte. «Qui si “stringono la mano” ciò che è accademico e ciò che è popolare»mi disse un giorno il maestro. Qualcosa di simile, molti anni prima, avevano forse intuito i maestri a cui Díaz, ancora ragazzo, si era rivolto, se uno di loro scrive: «Díaz (…) promette molto. Può essere che siamo alla vigilia del presentare in un nostro paesano una esaltazione, una valorizzazione della nostra terra sul piano della più nobile e pura delle arti». Melodie semplici, dense di nostalgie struggenti o ingenua allegria, forme compiute e spoglie come solo la sensibilità del popolo sa concepire, divengono preziosissime pagine chitarristiche, che il maestro avrebbe portato – a fianco delle opere dei più illustri compositori – nei suoi concerti in tutto il mondo.

Ma sempre rimase, come tratto caratteristico di Díaz, la più grande semplicità. Semplicità che nemmeno la più vasta carriera ha potuto adombrare. Quando era possibile, Díaz non dimenticava mai di tornare in patria, per salutare i suoi amici e riproporre, in mezzo ai campi, gli stessi programmi che aveva appena portato sui grandi palcoscenici d’Europa. E i suoi amici sempre lo aspettavano, per riascoltare con curiosità le magie di quella chitarra “nata” tra di loro. In quel piccolo popolo che oggi, insieme a tanti altri, rivolge al maestro campesino il suo ultimo, grato saluto.

Stefano Picciano


Stefano Picciano è un chitarrista e didatta italiano, autore per Ut Orpheus di una biografia di Miguel Llobet e di un volume su Alirio Diaz, di cui è stato allievo.

 

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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