La Tosca dopo la Prima

opera di grande successo 

Autore: Alessandro Tommasi

20 Dicembre 2019
Dopo la grande attenzione data alla Prima, si ha a volte la sensazione che le altre recite della medesima produzione in Scala non abbiano più quella tensione febbricitante, quel senso di esclusività, di importanza. Questo è successo anche con la Tosca del 16 dicembre, nonostante sul palco si trovasse il cast principale (solo Meli era ammalato e ancora Anna Netrebko non aveva cancellato le sue ultime recite) e nemmeno dieci giorni fossero passati dalla Prima.

L’antro di Scarpia, dalla recita del 7 dicembre

Non mi si fraintenda, la qualità esecutiva c’era tutta. Sullo spettacolo di Livermore è stato scritto tutto e il contrario di tutto e la definizione “cinematografico” è risuonata in lungo e in largo (con senso, però: molti di più sono gli spettatori che seguono la Prima via televisione, internet e proiezioni, rispetto a quelli che affollano il pur ampio teatro milanese), ma lo spettacolo si fa godibile anche dal vivo, con qualche grande effetto e una ricerca di magnificenza che si può dire senza dubbio compiuta, senza che alcun problema tecnico interrompesse questa recita. Le criticità, se le si vuol sollevare, stanno semmai nello scorrere, nel fluire dell’azione, molto più concentrata sull’effetto istantaneo che non sull’animare scene altrimenti piuttosto ferme e piatte e alcune scelte alquanto discutibili come l’anticlimatico finale, in cui una Tosca sospesa per aria a dimenarsi convulsamente tra espressioni disperate spogliava di ogni intensità la tragica conclusione. A tenere viva l’attenzione sullo spettacolo, le splendide scene di Giò Forma, cui va senza dubbio molto dell’effetto sontuoso e magnificente dello spettacolo. Meno convincenti i costumi di Gianluca Falaschi, che non sembravano accordarsi molto con scene e regia e di cui non ho compreso il significato più recondito. D’altronde una certa farraginosità ha contraddistinto tutta l’opera, in ogni suo aspetto. I diversi momenti sono apparsi spesso sconnessi, separati, senza un fluire costante e coerente, quasi a numeri chiusi e come se i personaggi stessi vivessero la propria vicenda come uno spettacolo. Se questa era l’idea di fondo (Tosca come attrice di se stessa? Il mondo come palcoscenico?), si poteva assai più calcare la mano su questo aspetto, che invece è sembrato più una non desiderata conseguenza di un’eccessiva ricerca dell’istante ad effetto.

In questo, però, Livermore non è stato aiutato da orchestra e direttore. Anche Riccardo Chailly non era in splendida forma e ha condotto l’Orchestra della Scala con sicurezza, ma senza riuscire a dare quel qualcosa in più. Molte preziosità di orchestrazione pucciniane si sono perse in una concertazione meno elegante e coesa rispetto a quanto il direttore milanese ci abbia abituati, spesso con una pesantezza di ottoni e archi tale da mettere in difficoltà le voci sul palco. Al contempo, però, è mancato quel fluire dato dalla creazione di ampie frasi e lunghi archi, in cui costruire gli apici di tensione oppure trattenere il discorso per rafforzarne l’impeto espressivo. Questa è forse una non così efficace conseguenza (come per Livermore) di una invece molto apprezzabile cifra stilistica del Puccini chaillyano: la sobrietà. Non si troveranno facili patetismi, sovraeccitate gesticolazioni ed eccessivi sfoghi passionali nella Tosca di Chailly. Tutto è chiaro, controllato, razionale e, perché no?, anche moderno, distante da prassi forse desuete. Va da sé che, complice probabilmente l’assenza di concentrazione post Prima, ciò che mancava era un po’ di verità. In buona forma l’Orchestra della Scala, con particolare buona resa dei legni, mentre alcuni scollamenti negli archi e negli ottoni hanno rafforzato questo senso di poca attenzione da parte di un’orchestra assai sicura dei propri mezzi. Tra Chailly e Livermore lo spettacolo ha dunque funzionato, il livello è stato confermato, ma non usciva da palco e buca, non arrivava allo spettatore con la bruciante intensità del momento artistico. Non è necessario scadere in una passionalità di dubbio gusto, anche il sobrio controllo può essere toccante.

Anna Netrebko e Luca Salsi, al culmine del II atto.

 

Sensazioni non troppo dissimili sono arrivate dal palco. Ottima la protagonista della serata, Anna Netrebko, cui si deve un Vissi d’arte che è stato il momento più bello di tutta la recita (ma lo è forse proprio dell’opera di Puccini) e sulla cui magnifica voce c’è ben poco da dire. È stato però più volte fatto presente che non fosse forse la cantante più adatta per questo ruolo e posso dirmi abbastanza concorde: mancava, in fondo, quella tagliente forza nel registro grave, quello slancio che porta Floria Tosca dall’elegiaca dolcezza alla violenza drammatica. Ben condotta tutta la parte, dunque, senza dubbi, ma forse con un po’ di assenza, coerentemente con la buca d’altronde. Peccato per l’assenza di Francesco Meli, sostituito all’ultimo e con ottimo successo da Otar Jorjikia. Al suo debutto scaligero, il tenore georgiano non era certo sfavillante come le stelle che lo circondavano, ma è riuscito a vincere l’emozione che lo avvinghiava e ne ha indebolito il Recondita armonia, dimostrando tutta la sua solidità quando dopo un falso attacco (tra l’altro con la sillaba “st”, con cosa si stava confondendo?) è riuscito a condurre il E lucevan le stelle con sicurezza e splendido timbro. Molto buona quindi la sua recita, così come ottima quella di Luca Salsi: nonostante qualche imperfezione di intonazione, il baritono è stato il più convincente da un punto di vista vocale. Meno di interpretazione, però. Al suo Scarpia, sicuramente maestoso e fiero, mancavano quella pura malvagità e quella perversione che generano ribrezzo nei confronti del personaggio forse più interessante dell’intera Tosca. Veramente notevole il Sagrestano di Alfonso Antoniozzi, affrontato con voce assai ferma e sicura, capace di stagliarsi sull’orchestra e senza tentazioni macchiettistiche. Buoni l’Angelotti di Carlo Cigni, lo Spoletta di Carlo Bosi, lo Sciarrone di Giulio Mastrototaro, il Carceriere di Ernesto Panariello e il Pastore di Gianluigi Sartori. Coro in forma ed efficace sotto la sicura direzione di Bruno Casoni. Insomma, tutto considerato, si è assistito ad una sobria e coerente Tosca anti-verista.

Il cast della Prima

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

Written by Alessandro Tommasi

Viaggiatore, organizzatore, giornalista e Pokémon Master, studia pianoforte a Bolzano, Padova e Roma e management culturale alla Rome Business School e alla Fondazione Fitzcarraldo. È Head of Artistic Administration della Gustav Mahler Jugendorchester e direttore artistico del Festival Cristofori e di Barco Teatro. Nel 2021 è stato Host degli Chopin Talk al Concorso Chopin di Varsavia. Nel 2020 ha pubblicato il suo primo libro, dedicato all'opera pianistica di Alfredo Casella. Dal 2019 è membro dell'Associazione Nazionale Critici Musicali.

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