L’irriducibile reciprocità tra composizione e improvvisazione

Accettare ognuno la propria circostanza e, nell’accettarla, trasformarla in una creazione nostra.
L’uomo è l’essere condannato a tradurre la necessità in libertà.

(José Ortega y Gasset)

Autore: Lorenzo Pompeo

1 Febbraio 2018
Quando parliamo di compositori e opere, di diversi stili ed epoche, consapevolmente o meno, ereditiamo delle strutture di pensiero per via delle quali la storia della musica classica, nel modo in cui la studiamo, viene trattata prevalentemente come storia della composizione musicale fissata nella partitura.

Un’ esecuzione di qualità oggi viene definita certamente dall’interpretazione personale, ma il suo requisito primario è unanimemente ritenuto essere il rispetto filologico dello spartito. L’esecutore, più che l’autore di un quadro, ricorda la figura di un restauratore che ci restituisce la visione integra di tal opera così come intesa dal suo creatore.
Indubbiamente le grandi interpretazioni sono state rese tali dalla cifra stilistica che ciascun esecutore ha impresso in un forte, un ritardando, un rubato. Tuttavia, seppure nella divergenza interpretativa, si tratta pur sempre dell’esecuzione di ciò che è segnato sulla carta. Non si vuole certo sminuire il lavoro artistico dell’esecutore, piuttosto fissare solamente un punto fondamentale dell’analisi: nella formazione e nella professione artistica legate alla musica classica, così come le conosciamo e percepiamo oggi, non è concesso spazio all’improvvisazione, se non minimo.

Il compositore si mette in discussione con la carta e porta allo scontro due materiali, uno invisibile e l’altro, di contro, tangibile: l’intelletto e la matrice invisibile in cui vengono ascoltati e assemblati suoni e armonie si dovranno confrontare con lo spartito e già lì, nella creatività astratta, si inizia a dotare la musica di caratteristiche scrivibili come un tempo, un riferimento all’armonia formale e alle sue nozioni, oppure a sistemi più moderni, sapendo già con precisione cosa rappresenterà un’eccezione alla struttura.
Le opere, per quanto possa sembrare un paradosso, sembrano quasi nascere dalla carta in forma astratta, in potenza, per poi manifestarsi in atto nella loro haecceitas formata e strutturata: la creazione musicale fissata nella partitura.

In verità, la mediazione mente – carta ha avuto nella storia della musica dei momenti diversi, ma l’importanza radicale della scrittura musicale ha visto sicuramente il suo vertice in Beethoven, teso continuamente nello sforzo di riportare sulla partitura ogni singolo carattere della composizione com’egli se la immaginava. I compositori precedenti, singolarmente dotati di un’impronta artistica di certo non inferiore come Haydn, Mozart o Bach si affacciavano ad un sostrato artistico che li mise in mostra come il frutto migliore di un unico tronco, un fondo impersonale da cui si poteva attingere come da una coscienza comune. Da Beethoven in poi i compositori iniziano a scavare in sé stessi alla ricerca di uno stile intimamente personale, così che divenne impossibile confondere una composizione di Brahms con una di Chopin, ad esempio.

Uno dei luoghi comuni meno comuni della musica classica recita che “tutti i grandi compositori erano grandi improvvisatori”. Questa è una verità assoluta, lo erano Mozart, Chopin, Liszt (di quest’ultimo avevamo parlato anche qui), anche lo stesso Beethoven, ma, soprattutto, essi intendevano la composizione come un tutto che potesse contenere anche una componente improvvisativa che sfuggisse alla carta. Mozart, Beethoven o Rachmaninov hanno fatto ricorso all’uso di cadenze, Chopin lesinava di indicazioni in intere sezioni dei suoi brani con l’effetto di lasciare l’incarico interpretativo all’esecutore.

La filologia negli anni ha ovviato a questo vulnus inserendo nelle partiture le annotazioni degli autori, dei loro allievi o delle esecuzioni accettate come canoniche nel tempo.
Lungo la partitura del Rinaldo di Händel ci si imbatte in un’indicazione che recita “cembalo”, atta a indicare che il cembalista avrebbe dovuto improvvisare quel passaggio, ma William Babel, suo contemporaneo, ha trascritto l’improvvisazione dello stesso Händel. Per quanto riguarda Chopin, per fare un altro esempio, disponiamo del magistrale lavoro di Jean-Jaques Erdinger che ha redatto una documentazione dettagliata di testimonianze di allievi e conoscenti di Chopin per ricostruirne una struttura interpretativa quanto più precisa di come egli intendesse la composizione e la musica.

(manoscritto autografo di Fryderyk Chopin)

Se da un lato il progresso della filologia musicale ha fornito all’esecuzione eccelsi strumenti di precisione interpretativa, d’altro canto, nel filone cui apparteniamo, l’improvvisazione perde di fatto ogni valenza, per acquisirla semmai con connotati negativi.
La domanda che vogliamo porre è quale ruolo possa avere oggi l’improvvisazione nella musica classica, e perché ve ne sia, in pratica, totalmente esclusa.

Il suono come coscienza spaziale

Nell’improvvisazione acquisisce grande importanza il contesto. Chi produce la musica, chi ascolta e le stesse condizioni materiali del luogo contribuiscono alla conduzione verso un certo senso, senza che esso venga predisposto a priori e che chi partecipa sappia in corso d’opera dove sia diretto, non si può tornare indietro e cambiare o correggere qualcosa. I gesti sonori nascono l’uno dall’altro, sia come propria personale affermazione, sia come risposta ad una proposta sonora condotta da altri/o. Una comunità che partecipi all’improvvisazione non si mostra solo come una somma di individualità che si rapportano tra loro, quanto piuttosto come un’entità che rappresenta un insieme organico articolato nelle varie personalità, come un organismo biologico che vive nelle sue estensioni vitali. Non è un caso che l’improvvisazione sia stata associata al fenomeno biologico dell’autopoiesi.

Insomma, la spazialità dell’improvvisazione non sussiste semplicemente nel luogo dove essa avvenga, ma nell’assoluto circostanziale, nel dispiegarsi dinamico di un tutto vitale che nasce “all’improvviso”, senza che si sia predisposta una causalità determinata. Sia che si improvvisi da soli o in gruppo, in pubblico o in atmosfere private, ci si rivolge al fondo dello spazio che si occupa con la propria corporeità, alla nostra insistenza in esso per arrivare alla presenzialità più assoluta.
L’improvvisazione nasce senza un obiettivo finale da raggiungere, è un essere “nel fare”, oppure, servendoci del tedesco, potremmo dire erfahren, un termine che indica il sapere scoperto attraverso ad un processo di continua ricerca e sperimentazione, che tra l’altro ha la stessa radice della parola “esperienza”.

Oggi abbiamo nella mente soprattutto le performances jazzistiche, ma qual era il contesto dell’improvvisazione che coinvolgeva gli interpreti della musica classica fino all’Ottocento?
Nelle differenze presentate da ciascun epoca, ai musicisti era richiesta una grande maestria nell’improvvisare svariate forme musicali in presenza della corte ed eventi che la riguardassero, oppure nei salotti che favorivano il ritrovarsi di vari musicisti e intellettuali in cui era frequente si improvvisasse.
Questi contesti hanno subito ovvie variazioni nel tempo, ma anche nella circostanza concertistica, rimasta pressoché immutata oggi, è probabile che vi fosse uno spazio destinato ad una più o meno libera improvvisazione, oggi totalmente assente.

È chiaro che stiamo continuando a riferirci alla nostra tradizione più sedimentata, ma ci sono delle forme della rappresentazione musicale che nel Novecento mutano radicalmente questi paradigmi, facendo sì che la spazialità venga attraversata con una marcata e radicale ricerca dello spazio sonoro in dimensioni prima d’allora mai ammesse.

Il suono dell’istante

La composizione è un’esperienza di opposizione al tempo. L’operazione mediante la quale vengono fissate e incastonate delle note in uno spartito mostrano l’antinomia irriducibile cui è sottoposta la composizione, ossia mettere per iscritto un materiale sonoro che, nella propria rappresentazione, contrariamente a un quadro sempre sottoposto alla mia vista in tutti i suoi dettagli e le sue sfaccettature, è un fluire con un inizio e una fine da cogliere in tutto il suo dispiegarsi, intuendo una percezione d’insieme mai afferrabile completamente.

Con l’improvvisazione, viceversa, ci si espone alla vertigine della temporalità. Come il tempo, essa è un dispiegarsi di un contenuto non predeterminato in un divenire irreversibile.
Nell’improvvisazione non esistono errori in senso stretto, perché sono essi stessi parte fondante del processo ed è da essi stessi che passano gli sviluppi futuri. Noi consideriamo l’errore come tale considerando dei paradigmi logici, etici, utilitaristici e via discorrendo, ma se un errore in un’equazione conduce ad un vicolo cieco, se in un rapporto umano o professionale gli sbagli possono comprometterlo, nell’improvvisazione quell’errore funge solo da apripista a nuove matrici sonore.

Appare evidente, a questo punto, la differenza temporale che distanzia l’improvvisazione dalla composizione così come siamo abituati ad intenderle, l’una come evenemenzialità circostanziale e l’altra come fissità. Al secolo scorso appartengono tentativi che cercano di diminuire questa distanza.

Si prenda ad esempio la più chiacchierata composizione di John Cage, 4’33”. A rigore, essa non potrebbe essere considerata una composizione, vista la completa assenza di fissità di un qualsiasi suono, apparendo molto più vicina all’idea di improvvisazione col suo intento di esperire tutto il suono indeterminato e casuale offerto da un frammento di tempo. Il discorso non cambia di molto prendendo in analisi Music of Changes, in cui Cage annota sì dei suoni sullo spartito, ma dopo averli prodotti servendosi dei Ching, il testo oracolare cinese chiamato “libro dei mutamenti”: è possibile che in un dato momento si ripeta l’esatta sequenza di responsi oracolari che ha condotto a quelle note, ma l’impostazione di base è quella di un tentativo di fissare un’improvvisazione, non una composizione compiuta.

Quello che John Cage cerca di fissare è l’improvviso, l’attimo fuggente, l’occasionalità. L’ uomo di quegli anni riscopre l’istante dopo secoli in cui il tempo si credeva fosse un’ eterna linea retta, con l’idea di progresso che regnava nell’immaginario futuro. L’uomo che ha rotto lo spazio prospettico con Picasso, che ha annientato l’abisso dal cielo con gli aerei, in buona sostanza ha ucciso il proprio padre, i propri dei ma anche sé stesso attraverso gli orrori delle guerre più terribili della storia.
Quest’uomo sente il bisogno di riscoprire il suono dal principio, non si riconosce più nell’armonia, nella partitura come scrigno sicuro e indissolvibile della musica, né da qualsiasi certezza acquisita nei secoli. Riparte dall’inizio anche nella stessa definizione di suono, esperisce suoni e rumori senza porli in gerarchia, senza escludere nulla dalle sue possibilità perché necessita di ricostruirsi completamente, ritornando alla condizione infantile dove il bambino fa esperienza delle cose allargandone il campo funzionale per scoprire ogni orizzonte di senso.

Quale senso possiede la musica? Si potrebbe dire che una Fuga abbia un certo senso, una sua direzione, e così una Sonata o un Canone, ma se davvero un senso abbia abitato la musica, appare completamente perduto.
Una conseguenza di ciò è che anche la distanza incolmabile tra composizione e improvvisazione non resti immutata. Come per i bambini, il tempo di composizioni come Musica ricercata di György Ligeti o del Klavierstück IX di Stockhausen si distende, la ripetizione diventa una costante della locuzione e spesso si immette in un unico suono espresso, urlato, o pianto una vasta gamma di significati, mai conclusi, sempre colti in un atto di vera e propria improvvisazione mentre si fanno nuove scoperte mai premeditate e organizzate.
L’attimo si dilata, viene ripetuto allungato e così si forma una nuova coscienza del tempo e dello spazio sonoro, il senso delle cose è un atto di incontro tra il proprio atto di imposizione di senso e le possibilità di senso offerte dal suono.

La sfida di un’improvvisazione nella contemporaneità forse potrebbe sussistere nel potersi riappropriare del futuro, varcare di nuovo la soglia del suono singolo e andare oltre, affondare nell’incontro tra i suoni e riscoprire l’importanza degli strumenti stessi, darvi nuova linfa senza spogliarne l’essenza, sfruttare le nuove possibilità tecnologiche senza farsene dominare.

L’improvvisazione può essere il momento della libertà, mettendo un momento da parte l’idea di errore e, conseguentemente, di perfezione che affligge i musicisti sin dalla tenera età, slanciarsi nella processualità irreversibile dell’improvvisazione ma intuirne un senso, viversi nell’autopoiesi.

Vite parallele

Il problema che sovviene alla fine di queste riflessioni è come presentare al pubblico un’improvvisazione “classica” oggi, se e come darvi compiutezza estetica.

Il tentativo va fatto ponendo in essere nuove dinamiche di ascolto poiché di certo la musica classica non è morta, ma non può vivere solo come in un museo correndo il rischio di rendere i concerti solo esposizioni di antichi e meravigliosi reperti. Il paragone tra la musica e l’arte figurativa può apparire stridente se si pensa al fatto che i quadri stiano lì già eseguiti, immobili, mentre la musica si rivive e ri-attualizza per sua stessa natura: ad oggi, tuttavia, l’ambito della musica classica, all’espressione di una sensibilità moderna che incontri quella del passato salvaguardandola e vivificandola, sta sostituendo la reinterpretazione dell’eredità in chiave moderna.

Se l’improvvisazione piange, la composizione non ride e la crisi di oggi è conclamata non tanto per l’assenza di tentativi compositivi originali, quanto per l’assenza di un linguaggio che sappia incarnare la sensibilità contemporanea con un carattere quanto più possibile universale. Non è detto, però, che per superarla si debba partire unicamente dalla composizione. C’è forse la necessità che esse vadano di pari passo, perché l’improvvisazione può avere la capacità di slanciare idee sopite, come accadde ad Arvo Pärt che trovò la via del proprio stile improvvisando sul testo dei salmi biblici.
Forse inizia ad esserci l’esigenza di andare oltre gli astrattismi delle menti compositive che hanno dominato il panorama del secolo scorso e riscoprire il ruolo del pubblico, trasformare il bisogno di espressione in bisogno di comunicazione.

Si può riscoprire la forma, senza rigettarla a prescindere né idolatrarla, trovare forme alternative al concerto che non siano soltanto accompagnamenti a mostre pittoriche e declamazioni poetiche. Non c’è necessità di cercare a tutti i costi la sinestesia, la musica e tutte le arti hanno in sé tutti i mezzi di esprimersi compiutamente, c’è bisogno di nutrire fiducia in una riuscita in tal senso.
Va fatto il tentativo di riscoprire l’improvvisazione come parte fondante della musica poiché senza spontaneità non c’è futuro per la musica classica che rischia di ritrovarsi obsoleta come una tecnica di affresco dopo la nascita dei colori industriali.

Scuola e spontaneità devono camminare di pari passo e, forse, servirebbe una piccola rivoluzione della formazione musicale che spinga ad una maggiore applicazione pratica delle nozioni teoriche apprese riguardo l’armonia classica ma anche ad iniziare a considerare in pianta stabile lo studio teorico – pratico anche di autori del secolo scorso come Schönberg , rivoluzionari in quest’ambito, e delle loro tecniche compositive.
Oggi si fa un uso largo e forse sregolato dell’improvvisazione nelle pratiche della Musicoterapia ma questo suggerisce quanta forza si attribuisca alla spontaneità musicale nella formazione della persona. Organizzare una formazione che, sin dall’infanzia, corredi allo studio della composizione anche la pratica dell’improvvisazione senza porla in secondo piano potrebbe essere una chiave per appiccare la scintilla che riavvicini tanti alla musica, anche per non disperdere proprio il fondamentale valore artistico delle attività musicali concertistico-interpretative così come le conosciamo e ammiriamo.

Lorenzo Pompeo

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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