Takemitsu: tra Oriente e Occidente

Toru Takemitsu nasce a Tokyo nel 1930. I primi anni di vita li trascorre in Manciuria.

Autore: Redazione

14 Luglio 2017
Al suo ritorno in Giappone, la situazione politica è instabile: un colpo di stato prelude alla deflagrazione della guerra con la Cina. Ci interessa questo particolare politico per spiegare due aspetti fondamentali della poetica di Takemitsu; anzitutto, la situazione bellica fa emergere in Takemitsu un profondo desiderio di fuggire da questa realtà di terrore e morte auspicando un anno zero, un rinnovamento profondo che si traduce nell’adesione alle istanze promosse dall’avanguardia di Stockhausen, Boulez, Nono (che vivono il medesimo disagio) . Inoltre, la situazione poco favorevole crea le premesse per un allontanamento dai canoni della tradizione giapponese, nel caso specifico, dalle usanze musicali. In merito a quest’ultimo punto, la questione è complessa e va analizzata con cura. I suoi esordi rispondono ad un’esigenza di evasione, di adesione alle proposte occidentali.

“My music is very much influenced by American radio, because after the war Japan was occupied by the American Army and they had a radio station for the American soldiers. Every afternoon they broadcast three hours, of beautiful classical music – Bruno Walter, Toscanini, or Paul Whiteman from the Hollywood Bowl. I listened to radio every day. My first teacher was the radio.”

O ancora si lascia ammaliare dalle armonie del jazz:

“I had actually grown up in China (Manchuria) because of my father’s business. Every evening he listened to jazz – very old fashioned jazz music. So I knew very little about music except my father’s jazz music.”

Egli si invaghisce del fascino delle melodie occidentali e le prende a modello, evitando accuratamente di dedicarsi alla conoscenza della musica del suo paese alla luce della disastrosa situazione politico-sociale in cui versava e che lo spingeva a discostarsi da tutto ciò che era giapponese.

“You know, I am Japanese, but when I decided to be a composer, I did not know anything about my own musical tradition. I hated everything about Japan at that time because of my experience during the war. I really wanted to be a composer who was writing Western music, but after I had studied Western music for ten years I discovered by chance my own Japanese traditions. At that time I was crazy about the ‘Viennese School’ composers, and by chance I heard the music of the Bunraku Puppet Theater. I got a shock – oh, what a very strong, beautiful music. I suddenly recognized that I was Japanese and I should study my own tradition. So I started learning to play the Biwa. I studied it with a great master for two years and became very serious about our tradition. But I still try to combine it with Western music in my compositions.”

Questa testimonianza del compositore ci rivela che la scelta di non perseguire un discorso che fosse in linea con le tradizioni del suo paese è dovuta anche al fatto che egli si era rifiutato di conoscerle. Solo in un secondo momento si appresta a scandagliare usi e tradizioni musicali giapponesi. A quel punto, in veste di compositore, inizia ad avvalersi anche di dati musicali appartenenti alla sua cultura; attraverso diverse modalità di integrazione, egli si adopera per includere, nel suo corpus di opere, elementi appartenenti alla cultura occidentale e a quella orientale. Egli evita accuratamente di combinare gli stilemi delle due culture e mira, invece, al conseguimento di un nuovo universo sonoro elaborato con materiali propri di tali culture. Takemitsu afferma che questi due mondi (l’Oriente e l’Occidente), talvolta lo circondano con dolcezza, ma più spesso lo lacerano. Non si tratta di una lacerazione che potremmo definire tragica, ma è un malessere che s’attaglia bene al sentimento di malinconia.

  L’EVOCAZIONE

La gioia della sua musica sembra connessa alla mestizia: “ più si è in preda alla pura felicità del fare musica, più profonda è la tristezza”  . Abbiamo un primo dato che rimanda al carattere della musica di Takemitsu; la mestizia che permea di sé le opere del Nostro è spesso in relazione a scelte di tempi dilatati. La prima vera composizione di Takemitsu si chiama Lento in due movimenti (1950) . Sin dalle prime esperienze si può rintracciare questa peculiarità che gli varrà la qualifica di “Lento composer ” adottata da Funayama. Egli crea suggestioni sonore, dà vita a visioni acquatiche, o a rocciosi disegni ascendenti, a placidi giardini rigogliosi, o a piogge taglienti. Molti studiosi hanno ravvisato radici impressionistiche, rimandi a Debussy e Messiaen, nella musica del Nostro. Soprattutto emerge in maniera evidente il suo intento di evocare la Natura. L’evocazione avviene mediante la creazione di un’immagine sonora profondamente interiorizzata; un’estetica che prevede la liberazione, l’apertura della propria sensibilità e la messa in contatto di quest’ultima con l’essente, la realtà sensibile (mono no aware). Si tratta di una musica che procede per fulminee visioni, discontinue e abbaglianti, ognuna con un Infinito da percepire. Questi attimi, ricamati con cesellature raffinate, si adagiano su un flusso circolare che ha una sua importanza semantica, come avremo modo di analizzare in seguito.

Luciana Galliano suddivide l’opera di Takemitsu in diversi periodi, si tratta di una semplificazione ma è d’ausilio per comprendere l’iter percorso dal Nostro.

Nel primo periodo c’è la prevalenza del fluire circolare che conferisce omogeneità al tessuto musicale. The Dorian Horizon (1966) è presa come modello del primo periodo: un’idea organica, una concezione metafisica di ritmo. Il secondo periodo si configura come più frammentario, meno strutturale. November Steps incarna lo spirito di dinamismo e ricerca di nuovi impasti sonori (onkyo) . Il materiale motivico frammentario coadiuva una sensualità ed un estetismo che prima non era possibile rintracciare. Il terzo periodo, esemplificato da A flock.. ; è il periodo delle opere acquatiche: armonie evanescenti, accordi in posizioni estese che scivolano cromaticamente creando un moto che ha carattere  nervoso più che dinamico. Nelle opere da camera degli anni Settanta / Ottanta, la scrittura si stratifica ulteriormente e si giova dell’utilizzo dei modi di Messiaen. Le opere degli anni Ottanta sono informate da una tonalità allargata.

In realtà, riferimenti a Messiaen si riscontrano già a partire dalle prime opere; in Distance de Fèe , opera per violino e pianoforte del 1951,  è utilizzata con frequenza la scala otto tonica che rievoca l’universo sonoro di Messiaen. Ma, ancor di più, il primo accordo che  dà vita alla composizione indica una vicinanza con un altro dei modi del sistema di Messiaen, il Modo III, che sarà utilizzato con sistematicità a partire dagli anni Ottanta. Questo brano venne eseguito nel ’51 in un recital del gruppo Shinsakkyokuha. Il gruppo della nuova composizione, nato per promuovere gli interessi di un gruppo di compositori conservatori e nazionalisti, fornisce il trampolino di lancio per Takemitsu. In occasione di un concerto del Shinsakkyokuha, il Nostro incontra il compositore Joji Yuasa e il poeta e critico musicale Kuniharu Akiyama con i quali decide, poi, di fondare una nuova associazione artistica che rispecchiasse gli ideali dell’avanguardia. Nasce così il Jikken Kobo, Laboratorio Sperimentale. Con l’abbandono della Shinsakkyokuha e la fondazione del Jikken Kobo, Takemitsu acquisisce a tutti gli effetti lo status di outsider rispetto al mondo dell’establishment istituzionale accademico giapponese.

 ORIENTE E OCCIDENTE

Il nostro interesse verte essenzialmente sul rapporto che Takemitsu intrattiene con il suo paese (tradizioni musicali, cultura..) e con i paesi occidentali. Possiamo affermare che, data la sua posizione di outsider, la sua riluttanza all’accademismo e la sua affannosa ricerca di stimoli altri provenienti dall’Occidente, Takemitsu si configura come un compositore di rottura; tuttavia, in un secondo momento, egli intende riappropriarsi delle proprie radici con atteggiamento scientifico. Dunque egli non si avvale degli strumenti, delle pratiche, delle grammatiche proprie del suo Paese con fare ingenuo, ma per scelta consapevole. Come per scelta consapevole, aveva iniziato a scrivere evitando di ricalcare modi giapponesi perché provato dalla guerra e dal ruolo che il Giappone aveva assunto durante il conflitto. Nel caso di Takemitsu, sarebbe, infatti, più corretto parlare specificamente di Giappone e non di Oriente. Gli anni del Jikken Kobo vedono la collaborazione di cinque compositori (tra cui Takemitsu) , quattro pittori, un pianista e un esperto di luci; tutti fermamente convinti che la musica occidentale fosse una cura, una forma di liberazione dalla maledizione giapponese, dall’orrido nazionalismo del Giappone imperiale in guerra. Sono anni vertiginosi in cui i componenti del Jikken Kobo ritenevano che avrebbero potuto trovare la loro personale forma d’espressione studiando la musica europea contemporanea dell’epoca. Negli anni Sessanta, Takemitsu recupera in parte le sue radici; non che ci sia una cesura definita: non si può parlare di periodo occidentale e periodo orientale. Peter Burt si interroga sull’esistenza di un’identità giapponese in Toru Takemitsu; egli giunge alla conclusione che il Nostro non è mai stato giapponese in senso “nazionalista”, ma dai suoi scritti, oltre che in primis dalle sue opere, si evince che, essendo cresciuto in Giappone, non ha potuto essere indipendente dalle tradizioni della sua patria.

Un tempo credevo che fare musica significasse proiettarsi in un enorme specchio chiamato Occidente. Entrando in contatto con la musica tradizionale giapponese, ho capito che c’è un altro specchio.”

 Così Takemitsu si esprimeva nel 1992.

LA DIMENSIONE TEMPORALE

Che cosa ha scoperto entrando in contatto con la musica tradizionale giapponese?

Takemitsu ha individuato che ogni suono possiede una qualità rumoristica (sawari); questo aspetto di articolazione interna del suono durante la sua emissione è inteso come ponte di collegamento tra la tradizione musicale del suo Paese e gli sviluppi dell’avanguardia occidentale. Va notato che tale qualità è interiorizzata e diviene uno dei fondamenti della sua poetica : un certo suono ha bisogno di tempo per diventare ciò che è, e in questo tempo incontra attriti e ostacoli. Alla luce di tale fondamento, si comprende l’importanza che la dimensione temporale riveste nelle sue opere; la necessità di dilatare i tempi affinché il suono si mostri nella sua interezza. E’ un suono che consta di semanticità, è pregno di potenzialità significanti e di forza espressiva. Nella musica di Takemitsu il nesso tra suono e significato si articola nei titoli delle composizioni, nell’evocazione di determinate immagini o forze della natura, nell’atteggiamento dello scrutare (anziché narrare o analizzare) che contraddistingue i suoi processi sonori e soprattutto nelle composizioni per i film.

 IL CONCETTO DI NATURA

Takemitsu attinge a una sorta di vocabolario antropologico del suono, per dirla in termini burtiani. Una musica che evoca le forze della natura racchiude in sé aspetti della sensibilità orientale. Takemitsu restituisce i suoni alla natura. Non mette al centro un Io soggettivo; il Nostro manifesta la sua diffidenza riguardo alla cosiddetta “espressione” in musica, che è un concetto tipicamente occidentale, e presuppone la preminenza di un Io. Takemitsu si allinea, in questo caso, ad una filosofia di stampo orientale, che riconosce nella Natura, un’essenza vitale e creatrice; una rappresentazione del Tutto, che va contemplata e tutelata. L’ Io fa parte di questa forza imprescindibile ma non ha un ruolo di primo piano; è nel Tutto che si ravvisa l’Armonia. Takemitsu non ha mai avuto rapporti diretti con il buddhismo e con il pensiero zen, le analogie che si riscontrano con queste due filosofie sono ascrivibili alla generale koiné della sensibilità giapponese.

In alcuni casi, il concetto di Natura non è connesso a vorticose forze inoppugnabili e grandiose, ma può essere sotteso a dimensioni più intime, come l’arte del giardino giapponese, che tanta parte ha avuto nelle suggestioni visive del Nostro. A proposito di The Dorian Horizon, Takemitsu nel 1995 si esprimeva così:

“Qualche volta la mia musica segue il disegno di un giardino già esistente. Alcune volte può seguire il disegno di un giardino immaginario, che ho schizzato. Il tempo, nella mia musica, può essere la durata della mia passeggiata per questi giardini. Ho descritto la mia scelta di suoni: i modi e le loro varianti […]. Ma è il giardino che dà forma a queste idee.

Il linguaggio musicale utilizzato è un linguaggio mutuato dalla grammatica novecentesca occidentale, ma l’idea formale alla base è di origine orientale.

L’idea, per esempio, che l’orchestra stessa possa funzionare come un grande ‘giardino’, con gruppi di strumenti distribuiti nello spazio, come nel brano Arc. O – nello stesso brano – che la musica di quei gruppi possa essere suonata in tempi differenti, a somiglianza dei cicli temporali dei diversi elementi presenti nel giardino: sassi, sabbia, alberi, fiori. O che la struttura del brano intero assomigli a un giardino giapponese, in cui gli stessi ‘oggetti musicali’ – sassi, fiori, etc. – siano visti sempre da nuove prospettive, come in molti lavori degli ultimi anni. Allora, nelle opere di Takemitsu, alcuni aspetti formali del giardino giapponese sono trasformati in aspetti formali musicali. Quello che udiamo non è una rappresentazione pittoresca di un giardino giapponese, ma una traduzione musicale di alcune delle sue idee formali.

L’idea di giardino rimanda a parametri spaziali, prende in considerazione il concetto di vuoto. Un vuoto che deborda di significati, un vuoto che si ritaglia il suo spazio e giunge a confrontarsi con il suono a pari dignità con quest’ultimo.

MA E SAWARI

Il vuoto è tradotto musicalmente con il silenzio. Takemitsu sposa le implicazioni filosofiche orientali attribuite al silenzio. Il silenzio è un paesaggio sonoro che permette un ascolto hi fi della propria interiorità e perciò, nell’idea di Takemitsu, assurge a motore primo della composizione; nella sua prospettiva, è il suono, che , generato dal silenzio, deve acquisire uno status superiore per poter competere con l’essenza generatrice.

«Nel nostro mondo esistono il silenzio e un suono senza limiti. Scrupolosamente, voglio scolpire quel suono con le mie mani sino ad arrivare a un singolo suono. E questo suono avrà abbastanza forza da potersi confrontare con il silenzio.»

E’ nel silenzio che si trova un’espressione della filosofia di maun continuum di silenzio metafisico. Questo silenzio in realtà è riempito da innumerevoli rumori dello spazio. Un altro concetto preso dall’estetica tradizionale giapponese (che ha a che vedere con il rumore) è il sawari, già citato precedentemente. Sawari è un suono complesso, pieno di armonici, che non consta di un’altezza precisa e per questa sua peculiarità è accostato al rumore. La parola sawari viene dal verbo giapponese sawaru. Tradotto in italiano, questo termine significa ‘toccare’. Si tratta di un elemento timbrico, un suono prodotto da strumenti tradizionali. Dove si trova, allora, nella musica di Takemitsu , scritta, per lo più, per strumenti occidentali? Una risposta possibile è data da Ono in uno scritto dedicato a Takemitsu, in riferimento ai molti luoghi nella sua musica dove il suono muore al niente; ascoltiamo il suono che si riverbera, fino a che gradualmente si unisce ai suoni dell’ambiente naturale che ci circonda. Noi avvertiamo il sawari naturale grazie al ma. Due delle più importanti idee estetiche di Takemitsu si trovano così in una complessa relazione reciproca.

Abbiamo detto che sua musica è scritta per lo più per strumenti occidentali, ma ci interessa analizzare l’esigua produzione che include strumenti tradizionali giapponesi. Voyage, Eclipse, Autumn, Distance, In an Autumn Garden, Ceremonial  sono alcuni dei brani scritti per strumenti tipici giapponesi, ma sono, appunto, una minima parte rispetto ad una produzione che conta più di cento brani da concerto; fra le colonne sonore si trovano più esempi ma per ragioni per lo più narrative.

Tra le composizioni più celebri, November Steps (1967), in cui per la prima volta vennero utilizzati strumenti della tradizione giapponese come il biwa (liuto a quattro corde) e lo shakuhachi (flauto di legno) insieme a strumenti della tradizione occidentale.

“Quando ho composto November Steps […] ho pensato alla celebre massima di Kipling: «West is West, East is East». Ho pensato di esprimere con la mia musica una critica al suo modo di pensare […] Ma mentre procedevo nel lavoro, la mia intenzione di testimoniare contro quella massima di Kipling è progressivamente svanita: cercando le note sulla partitura, mi è parso che i suoni giapponesi e i suoni occidentali siano totalmente differenti. L’ho sentito come un errore ridicolo, quello di mettere biwa e shakuhachi nel contesto di un lavoro per orchestra sinfonica occidentale.”

November Steps scatenò in Giappone il cosiddetto hogakki- boom, la moda degli strumenti tradizionali nella musica contemporanea. In November Steps , il suono puro, astratto dell’orchestra occidentale viene contaminato dal suono impuro degli strumenti giapponesi. Le impurità derivano dal sawari , creato dagli strumenti in modo difficoltoso, con impedimento. L’impedimento è meraviglioso; la libertà contro l’ostacolo, contro l’impedimento, appare terribilmente grande.

 

STIMOLI DALL’OCCIDENTE E SUGGESTIONI DALL’ORIENTE

L’adesione ai modelli atonali della scuola occidentale non è totale. Takemitsu si sente libero di adoperare più linguaggi senza temere di non essere all’avanguardia. Egli non si pone limiti, come invece fanno i suoi colleghi occidentali. Sceglie di appropriarsi di un ampio spettro di possibilità: atonali, tonali e modali.

“Maybe I am old, but I am looking back to the past with nostalgia. Composers are sometimes afraid to use tonality, but we can use anything from the tonal to the atonal – this is our treasure. I can say that because I am Japanese!”

Un compositore occidentale non avrebbe potuto azzardare un contatto con la tonalità, dopo il movimento di estrema rottura che trae linfa prima dalla dodecafonia e poi, in maniera più importante, dalla spinta propulsiva di Webern e dai suoi adepti che hanno avuto voce a Darmstadt. Takemitsu è giapponese, è libero di guardare al passato con nostalgia e non si preclude la possibilità di utilizzarne modelli e stilemi. Un giapponese ha care le sue origini e si adopera per perpetuare le tradizioni.

Egli riesce a conciliare musica concreta e capisaldi della filosofia giapponese con modalità mai banali.

Alla fine degli anni Cinquanta egli scrive un ciclo di tre composizioni per doppio quartetto d’archi dal titolo Le Son Calligraphié. La prima delle tre viene eseguita per la prima volta al Festival Kruizawa di Musica Contemporanea (l’equivalente giapponese di Darmstadt) nel 1958. La tecnica compositiva risente dell’influsso della serialità weberniana, quindi ci troviamo di fronte ad uno stimolo occidentale. Il titolo rimanda alla tradizione dell’arte calligrafica giapponese, a testimonianza di un legame intimo con le suggestioni provenienti dall’Oriente. Lo stesso accade in Masque, composizione del 1960 per due flauti, dove la connotazione orientale si palesa nel titolo, che allude alla maschera indossata dagli attori nō, per simulare il carattere femminile. In Masque c’è di più: il tempo è inteso in una concezione orientale, è un tempo interiore che non può essere compreso con i mezzi dell’idea  occidentale di metro. Inoltre si avvertono sprazzi di orientalismo nell’uso di glissandi di quarto di tono; episodici accadimenti che però arricchiscono l’incedere musicale e lo nobilitano con una patina arcaizzante ma sempre attuale.

Lo stimolo occidentale della tecnica seriale è presente in molte opere di Takemitsu ma mai si tratta di un interesse specifico; la questione viene affrontata solamente come stimolo, appunto; anche in virtù del fatto che il Nostro è interessato più al timbro che alla sintassi.   I lavori degli anni Sessanta si configurano come facenti parte di un’ondata compositiva che intrattiene fitti rapporti con le caratteristiche timbriche degli strumenti e con le potenzialità espressive con una ricerca timbrica offre. A tal proposito, occorre citare Wind Horses, composizione per voci femminili del 1962. In questo pezzo, la ricerca timbrica si attua mediante l’uso del parlato, dello Sprechgesang e vari generi di emissioni respirate. La cura per le modalità di emissione del suono è un aspetto raffinato che si inserisce perfettamente nella compagine di raffinatezze proprie dell’estetica giapponese.

Da questa breve disamina incentrata sui rapporti di Takemitsu con Oriente e Occidente, si evince una complessità di fondo. La complessità di una figura che non intende integrare queste due realtà o sceglierne una in luogo dell’altra; egli non vuole annullare le differenze che intercorrono tra questi  due poli.  Piuttosto, Takemitsu si sente libero di intraprendere un discorso musicale ibrido e non facilmente  catalogabile come appartenente ad una corrente. Egli supera i tentativi di unione e commistione dei due emisferi, assume una posizione trasversale: nuota in un oceano che non ha né Oriente né Occidente.

Silvia D’Augello

 

Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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