Il Carnevale Romano di Berlioz, baluardo di un’opera sfortunata

Il Carnevale, con la sua carica simbolica e i suoi festeggiamenti, da sempre è stato fonte di ispirazione per gli esponenti di tutte le arti.

Autore: Giulia Cucciarelli

16 Febbraio 2017

Il mondo operistico non ha fatto eccezione, prova ne è l’opera di Hector Berlioz, Benvenuto Cellini, ambientata nella Roma papalina proprio durante il Carnevale, in luoghi come i Palazzi Vaticani e Piazza Colonna, nell’epoca in cui il Carnevale della Capitale, con i suoi otto giorni di balli e tornei, era il più popolare d’Italia, superando per fama anche quello di Venezia.

La storia si rifà alla vita dell’artista italiano Benvenuto Cellini, e per questo avrebbe dovuto avere Firenze come scenario, ma Berlioz preferì omaggiare l’amata Città Eterna, che nel 1830 lo aveva ospitato dopo aver ottenuto il prestigioso “Prix de Rome”, grazie al quale ebbe la possibilità di studiare all’Accademia di Francia a Roma.

Dal Medioevo fino al XIX secolo, il periodo precedente la Quaresima trasformava Roma in una meta prediletta per gli amanti degli eccessi, in quanto era consentito trasgredire alcune rigide disposizioni di ordine pubblico e prendersi qualche rivincita nei confronti del clero e della nobiltà, senza rischiare la forca.

Questa irresistibile atmosfera non poteva non contagiare uno spirito libero come Hector Berlioz, che all’ombra del Pincio aveva scoperto un nuovo estro.

Come tutte le storie d’amore, anche quella tra Berlioz e Roma conobbe alti e bassi, come quando l’autore la definì “prosaica”, “stupida”, addirittura “senza spazio per chiunque abbia un cuore”, ma allo stesso tempo diventò la sua musa, una madre, come lo fu per tanti altri artisti, facendo nascere l’opera che lo accompagnò per tutta la vita.

Hector Berlioz non fu un bambino prodigio, anzi, non imparò mai a suonare correttamente uno strumento, e la famiglia non lo incoraggiò di certo. La costanza e la determinazione però non mancavano; si prefisse di diventare compositore e imparò da autodidatta tutto ciò che poteva in fatto di composizione.
Il genio e la fantasia colmavano le lacune sul piano tecnico: non sapeva suonare uno strumento ma sapeva suonare un’orchestra.
Dall’incontro di una personalità tale e una città che non lascia andare nessuno senza averlo cambiato un po’, non poteva nascere un’opera come le altre.

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Benvenuto Cellini, rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1838, non ebbe successo, subì significative modifiche e tornò in scena nel 1852 a Weimar; in seguito fu di nuovo rimaneggiata e non solo dall’autore, tanto da non poter conoscerne una versione definitiva.

Nella Histoire de la Musique del musicologo francese Lucien Rebatet non viene menzionata e l’enciclopedia dell’opera lirica di Gustav Kobbé riassume la trama in poche righe.

Il celeberrimo compositore ungherese Franz Liszt fu un grande estimatore dell’opera, convinse l’amico Berlioz a modificarla ancora, ed egli stesso apportò dei cambiamenti.

In Italia cominciò a circolare solo negli anni Sessanta, ma resta poco nota, e qualcuno la definì l’opera maledetta di Berlioz; non a caso però l’autore si riconosceva nel protagonista, un artista innovativo, compreso da pochi.

La musica di Berlioz è estremamente difficile, sempre al limite dell’ineseguibile, a volte sembra un Beethoven impazzito“.

Roberto Abbado, in occasione della rappresentazione del Benvenuto Cellini al Teatro dell’Opera di Roma dello scorso anno

Benvenuto Cellini diventa così una sorta di opera aperta, sperimentale, di tremenda esecuzione per gli interpreti, con un’intonazione difficilissima a causa dei continui cambiamenti del ritmo e della metrica in brani composti sul passaggio di registro, ma proprio per questo considerata da alcuni il capolavoro di Berlioz.

La verità storica legata alla vita dello scultore fiorentino si mescola alla fantasia dell’autore che volle inserire una storia d’amore- a lieto fine- e fece innamorare Cellini di Teresa Balducci, promessa sposa del suo rivale professionale Fieramosca.

Il percorso travagliato dell’opera a cui aveva dedicato tutto se stesso amareggiò profondamente Berlioz, che nel 1843 decise di recuperare alcuni temi rielaborandoli in un’ ouverture da concerto, la celebre Le Carnaval romain, op.9, e precisamente quello tratto dalla storia d’amore del primo atto tra Benvenuto e Teresa, parte solistica affidata al corno inglese, con una melodia che rievoca un paesaggio di fine inverno nell’antica campagna romana, con il tiepido sole tra i viali alberati e le rovine dell’acquedotto Claudio; e quello del finale, ovvero la festa di Carnevale in Piazza Colonna, con la frenesia di un saltarello in sei ottavi, fino ad arrivare alla fine, quando Berlioz unisce il tema del duetto tra i due innamorati con il ritmo del coro carnevalesco.

Il brano, di grande effetto strumentale, si articola quindi in tre movimenti: un brevissimo Allegro assai con fuoco, un Andante sostenuto e un Allegro vivace,  ricreando perfettamente la scena popolare nella sua esuberanza capitolina, e sembra di essere lì, tra la folla, sotto il cielo terso di un’incantevole Roma.

Se la strada del Benvenuto Cellini fu sempre in salita, il Carnevale Romano incontrò facilmente il favore del pubblico, fino ad entrare a pieno titolo tra i grandi classici della musica francese, salvando così dall’oblio le parti migliori dell’opera.

Le ambientazioni della trama restano vivide in questa ouverture, e non potrebbe essere altrimenti, perché la location non fa da sfondo, ma da protagonista: la calda Roma con la sua esplosione di colori, disegnata da un francese innamorato dei suoi tramonti, non avrebbe mai potuto restare in un angolo, e regala anche alla composizione di Berlioz un po’ della sua eternità.

Giulia Cucciarelli


Teatro Regio Parma – Accademia Verdiana

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